Libro Primo della Trilogia di Daevabad. Novità libraria in anteprima!

S.A. Chakraborty trasporta nelle pagine la sua passione per la storia e le credenze che fanno parte della sua fede. Ambienta City of Brass, che lei stessa con molta umiltà definisce una fanfiction storica, nel XVIII secolo. Leggendo subito ci tuffiamo nell’Egitto invaso da Francesi e Ottomani, al principio del colonialismo occidentale nel medio oriente. Il tema ricorrente è l’occupazione di una città, quella umana del Cairo, quella semidivina di Daevabas, e le conseguenze a breve e lungo termine di questa occupazione, descritte nel modo più realistico possibile. E cioè senza negarne alcune in favore di altre, tenendo conto delle generazioni che passano e degli incontri e scontri di culture diverse, di pregiudizi e discriminazioni, di scelte politiche e ribellioni civili.

Come dichiarato in una intervista a Kirkus redatta da James McDonald, Shannon K. Chakraborty pianta i semi di City of Brass una decina di anni fa, quando, dopo essersi convertita all’Islam, vola dal New Jersey al Cairo per studiare, e lì per la prima volta ascolta storie di cerimonie usate per espellere un jinn che si sia impossessato di un uomo. La sua regola, una volta deciso di approfondire le ricerche per ciò che diventerà la Trilogia di Daevabad, è di non inserire nei suoi romanzi nulla di cui non avesse trovato traccia nei testi o nelle storie di quel paese. Cosa che personalmente, da studiosa e appassionata di storia, trovo davvero encomiabile.
Il desiderio che muove la penna di Chakraborty è quello di scrivere per la sua comunità, di dare rappresentazione ai ragazzi e alle ragazze, agli uomini e alle donne con cui ogni giorno collabora attraverso la sua Moschea, andando oltre il pregiudizio dei media occidentali.
Mi colpisce ciò che ha riferito in una seconda intervista: “I don’t think anyone can adequately represent two billion people and if someone did, it certainly wouldn’t be a white convert from New Jersey whose heritage land more Tony Soprano than Kamala Khan… I try to hold myself accountable to fellow Muslim first, and to showing respect and justice to a culture and history that I never forget isn’t mine despite how much I might enjoy it”
Il mondo della trilogia di Daevabad, complesso e affascinante, ha le sue radici nella cultura medio orientale ma si espande ben oltre i confini arabi. Uno sguardo alla mappa infatti ci indica i principali luoghi della trilogia, distribuiti nel Sahara, lungo il Nilo e poi a est dell’Eufrate, arrivando a toccare quindi anche Africa, odierno Pakistan, India e Cina.

Già dalle prime pagine dell’impeccabile traduzione italiana, che ho avuto il piacere di leggere in anteprima per Oscar Mondadori Vault e che troveremo in libreria da martedì 16 giugno, l’impressione è quella di una narrazione ricca e vibrante. Le descrizioni vivaci e dettagliate mi hanno fatto percepire con tutti e cinque i sensi l’atmosfera arabeggiante. Il vocabolario altresì contribuisce, non temendo di integrare parole straniere, che possono essere benissimo comprese dal contesto e meglio chiarite dal glossario alla fine. Anche se io rimango una sostenitrice delle note a piè pagina, che ritengo molto più funzionali a una lettura fluida e comoda. (Grazie di esistere Susanna Clarke).
Conosciamo Nahri, la protagonista. Una ragazza di circa vent’anni, sola e indipendente, resa scaltra dalle difficoltà della vita. Spacciandosi per guaritrice, truffa il prossimo per sopravvivere, consapevole delle ambiguità morali. E’curiosa e ambiziosa, ma anche molto pragmatica, e la sua lingua biforcuta mi ha strappato più di una risata, capace com’è di regalare momenti di assoluta ironia anche nelle situazioni piu tragiche.
Un lungo grido acuto sembrò lacerare l’aria. Non poteva tapparsi le orecchie, poteva soltanto pregare. “oh misericordioso” imploró. “Non permettere a quel mostro di mangiarmi”. Era sopravvissuta a un Ifrit che aveva posseduto un corpo umano, a gul famelici e a un daeva squilibrato. Non poteva finire nella gola di un piccione gigante
Alcune abilità molto peculiari di Nahri aprono al mistero sul suo passato e al suo legame con Daevabad, la città invisibile agli esseri umani in cui diverse tribù di daeva, jinn e shafit convivono in equilibrio precario, sull’orlo del prossimo sanguinario conflitto. Alcuni lettori potrebbero trovare questi jinn troppo umani, ma negli archi mitologici raramente eroi, divinità e semi divinità si sono mai mostrati al di sopra dei sentimenti e delle emozioni umane. Anzi, forse ció che li caratterizza è proprio l’incapacità di vivere queste emozioni con equilibrio, vere e proprie vittime del caos, dei tranelli, delle vendette e dei rancori, delle passioni e degli amori.
Nahri si dimostra talvolta impulsiva, ma più spesso opera in lucida diffidenza, specie quando si trova catapultata in un mondo che non conosce. È ben cosciente dei suoi limiti e della necessità di istruirsi non solo per essere all’altezza delle sue ambizioni, ma soprattutto per sopravvivere nel mezzo degli intrighi di palazzo cui suo malgrado viene data in pasto. In questo senso, i molteplici confronti con Nisreen, specie quello finale, sono tra le mie scene preferite.
Il suo legame con Dara, il daeva che ha invocato per errore, è uno dei fulcri del romanzo e presumo dell’intera trilogia. In lui riconosciamo il guerriero feroce e impietoso, un terribile nemico e un caparbio alleato con cui simpatizzare ma anche da temere. Al di la di come si evolve il loro rapporto nel corso della storia, unico punto che ho trovato prevedibile e forse anche troppo affrettato, mi piace il fatto che Dara per Nahri sia una sorta di Virgilio, una guida per scoprire la Città di Ottone e ciò che circonda le sue mura.

Quel che Dara non può o non vuole dire lo scopriamo attraverso un altro punto di vista, quello del principe Alizayd, incasinato, fin troppo ferreo nei suoi principi, ma anche sensibile e accorto.
Situazioni e personaggi sono ritratti in continuo chiaroscuro, un gioco di luci e ombre che cambia la percezione, ribalta i giudizi, aggiunge profondità senza mai cadere in facili dicotomie. Non ci sono buoni e cattivi, ci sono persone a tutto tondo, come Re Ghassan e i figli Muntadhir e Zaynab, per non dire del Visir Kaveh e dello sceicco Anas, che pensano e agiscono in un’incredibile gamma di grigi. In questo senso, alcune espressioni, gesti e stralci di dialogo rivelatori mi sono rimasti particolarmente impressi.
La Città di Ottone, a mio parere, non è un romanzo esente da imperfezioni: le descrizioni di abiti, oggetti e monili, pur aiutando il lettore a immaginare un contesto lontano nel tempo e nello spazio e a farsi un’idea delle differenze e delle similitudini culturali e sociali della moltitudine di personaggi, rischiano in qualche passaggio di sommergerlo inutilmente di dettagli. Inoltre, non sono una fan dei triangoli amorosi e purtroppo ne intravedo uno all’orizzonte. Nonostante questo, la lettura è stata davvero piacevole e credo sia un ottimo romanzo d’esordio, ed una meravigliosa introduzione al mondo immaginato, o ancor meglio studiato, dalla sua autrice. Il richiamo più facile e immediato è ad Aladdin e alle Mille e Una Notte, ma io in queste 528 pagine ci ho visto molto di più.

S.A. Chakraborty è stata capace di dipingere personalità sfaccettate, di giocare con l’ambiguità insita nell’animo umano, affondando i denti nella storia politica e nell’humus mitologico popolato da ogni sorta di creatura, (djinn, ghoul, ifrit, marid, peri, shedu…).
La narrazione scorre fluida e ritmata, senza troppe sbavature. Presto ci si trova a girare le pagine in uno stato di perenne anticipazione, perché lo scontro di spade ardenti, l’apparizione di mostri, lo svelamento di tradimenti o segreti potrebbero verificarsi nella prossima scena… Il finale arriva come uno schianto tremendo, ma non del tutto imprevisto, e ci lascia appesi a un piccolo ghigno* e a una rivelazione entusiasmante, col desiderio di leggere subito The Kingdom of Copper.
Leggere La Città di Ottone è stato come srotolare un tappeto, perdersi a osservare un singolo filo d’ordito e accorgersi solo in un secondo momento della straordinaria bellezza e complessità della trama. E poi, all’improvviso, prendere il volo verso una destinazione ancora ignota, sicuramente incantata.
**** 4,5 stelle